I koan

I mattoni dell’insegnamento


Nello studio dell’Aikido spesso si pensa alle varie fasi dell’apprendimento delle tecniche come a dei mattoni. Quando si pensa ad un mattone come strumento dell’insegnamento la nostra mente corre subito alla costruzione di un qualcosa, magari una fondamenta sicura da ergere un palazzo.

Questo ci ispira senz’altro una notazione positiva, vero? ma è proprio cosi?

Se ipotizzassi l’uso del mattone come strumento per ‘rompere’ qualcosa, la connotazione sarebbe comunemente negativa, vero? Vista in un’altra prospettiva potrei aggiungere che la costruzione è in realtà un muro posto sulla “Via” e potrebbe in alcuni casi impedirci di percorrere la nostra ricerca.

Vediamo il perché. I Koan sono dei 'problemi' che si trovano spesso nei libri di aneddotica e nei libri Zen in cui sono trattati con estrema serietà.  Sono risalenti a prima del dodicesimo secolo in Cina, introdotti in seguito in Giappone. Rappresentano degli enigmi con cui, nei secoli, si sono impegnati saggi e tutti coloro i quali volevano raggiungere attraverso il rigoroso addestramento 'la conoscenza'. I Koan sono utilizzati comunemente nell’insegnamento delle arti e dei mestieri in Giappone, l’insegnamento dell’Aikido avendo origine comune da maestri giapponesi ne ha ereditato alcuni precetti.

Nei Koan è simbolizzato il dilemma della vita, alcuni Koan, si incontrano, e forse li avete sicuramente incontrati nel corso degli anni:

'Concepire l’applauso di una sola mano',
'Chi è colui che cammina verso di me?',
'Tutte le cose convergono nell’Uno, dove converge quest’ultimo?'.

Nei confronti dei Koan ci si può sentire impotenti, i nostri sforzi ci portano in un’impasse apparentemente senza uscita.  Ma alla fine l’Io che osserva cade e troviamo la risposta.

D'accordo, lo so, questa mia ultima frase è d’effetto ma non vi comunica molto.

Forse è il caso di spiegare chi è l’Io che osserva.

Nel corso della pratica dell’Aikido spesso ci sentiamo dire che stiamo sbagliando, il nostro braccio, la nostra gamba, il nostro corpo è in una posizione sbagliata.

Non a caso ci viene detto, “non vedi il tuo corpo? non ti vedi che sei in una posizione sbagliata?”. Ci viene detto, in estrema sintesi, che dobbiamo vedere noi stessi.

E’ difficile capirlo ora ma questo non è il fine ultimo ma il mezzo.

Nell’educazione e nella didattica vi è la formulazione sin dai primi rudimenti dell’Io che osserva, viene creata una coscienza di noi stessi che ci guarda e con il suo giudizio ci guida.

Negli anni viene poi insegnato a liberarsi di quest’ingombrate Alter ego, strumento didattico eccezionale può divenire un muro sulla nostra strada. Si è soliti dire che un individuo può dare il meglio di se solo quando si libera dalle limitazioni dell’Io che osserva. 

Il saggio Nangaku impiego setta anni per rispondere al quesito: 'chi è colui che cammina verso di me?'. La sua risposta fu: 'Anche quando si afferma che qui esiste qualcosa, si omette il tutto'.

Con senso ironico potremmo dire che: 'questa era proprio la risposta che ci aspettavamo da un saggio giapponese', la risposta è più complessa della domanda!

Ma è il nostro approccio è errato, il nostro sguardo è ingannato, la soluzione non è nella risposta, ma nella domanda, ovvero nella ricerca che la domanda ci impone.

Quando si giunge finalmente alla risposta questa perde di significato non per delusione, ma perché ci si para davanti una conoscenza più alta in cui il Koan è stato solo uno strumento.

Nella pratica Zen si è soliti indicare i Koan come i mattoni con cui si picchia alla porta posta sul muro che rinchiude la natura umana 'non illuminata'.

Con il nostro battere possiamo percepire l’eco della vibrazione della nostro spirito. Ma possiamo anche abbattere la porta che ci ostacola.

Oltrepassando la porta di incanto ci accorgiamo che non stiamo entrando ma usciamo! ci si trova all’aria aperta, in un mondo di libertà, non abbiamo raggiunto l’infinito, ma acquistiamo la limpidità, la sincerità, il “Makoto”, allora facciamo coincidere mezzi e fini, sappiamo bene dosare l’energia né troppa né troppo poca.

Guardandoci la mano lasciamo cadere il mattone, non ci serve più e il significato che celava non ha più senso ormai.

Questo è il significato, il saperlo non ci da nessun vantaggio, sappiamo però quali sono gli strumenti.

Quando affrontiamo un Uke non dobbiamo pensare al Jo o al Ken.

'tra la volontà e l’azione lo spazio di un capello'.

Non c’è pensiero, c’è volontà, c’è libertà, la stessa libertà di cui parlava il Sensei Aquilotti nelle sue lezioni.